Ma quanto mi costi?

dell’avv. Eleonora Crialesi

Grazie al contributo sapiente dell’avv. Mescoli abbiamo già avuto modo di interrogarci sull’impatto dei DPCM Covid sulla vita nelle famiglie “disgregate”, ossia dei problemi e dubbi sulla concreta esecuzione dei provvedimenti giudiziali di separazione e divorzio che regolano il diritto di visita di genitori e figli, a fronte anche solo dalle limitazioni di circolazione imposte dal Governo (divieto di passaggio da un comune all’altro, possibilità di uscire solo per esigenze lavorative, di salute, spesa e necessità comprovate). Cosa deve prevalere la salute o la bigenitorialità? I provvedimenti governativi non hanno affrontato il problema in argomento ed i tribunali hanno dato risposte ad intermittenza. La questione poi si è rivelata ancor più complessa per i genitori non coniugati e quindi per i figli non-matrimoniali, riguardo ai quali non sempre vi sono provvedimenti giudiziali che già ne regolino la frequentazione, e pertanto ci si è trovati in assenza di ordini giudiziali da poter esibire al fine di giustificare i relativi spostamenti: pensiamo ad esempio a due genitori ex conviventi che abbiano ora residenze distinte, in comuni diversi, che si siano accordati stragiudizialmente sulla frequentazione dei figli con ciascuno di loro: in questi mesi essi sono risultati semplicemente “parenti non conviventi” dei propri figli, senza alcun provvedimento giudiziale da esibire o di cui pretendere l’esecuzione, e quindi rimanendo soggetti alle limitazioni; con conseguente discriminazione di fatto tra figli matrimoniali e figli (ex) matrimoniali. 

Su altro fronte assai delicata è stata (ed è) la condizione dei genitori che hanno procedimenti pendenti al Tribunale per i Minorenni, magari con allontanamento pregresso dei figli in eteroaffido: praticamente nessuna udienza è stata celebrata di quelle fissate in marzo e aprile, con conseguente ulteriore sacrificio di tempo e distacco, supplito – nella migliore delle ipotesi – da qualche videochiamata. Per inciso, alla sottoscritta, per un paio di udienza di aprile, nonostante la mancanza di provvedimenti di rinvio da un lato e del proclama sulla fantomatica celebrazione delle udienze da remoto, nulla è stato risposto neppure dopo formale istanza inoltrata a mezzo PEC. Solo il buon cuore di un Assistente sociale, con una telefonata, ha annunciato che l’udienza della mattina dopo non ci sarebbe stata: ancora oggi il sistema informatico dice che la mia udienza è stata il 7 aprile e nulla mi è stato comunicato circa l’effettivo rinvio. Altri mesi di lontananza, senza certezza neppure sul futuro posto che (esperienza personale) talvolta le udienze solo “saltate” senza rinvii ufficiali e si è ancora in attesa di sapere quando si potrà anche solo comparire davanti al Giudice, figuriamoci vedere la chiusura di un procedimento. 

Su altro fronte le questioni economiche: gli assegni di mantenimento che vengono stabiliti dal Tribunale per i figli sono parametrati principalmente su due criteri, la capacità contributiva (reddito) del genitore non convivente ed il suo apporto diretto ai bisogni dei figli (quanto tempo passano con lui). Ora, è immediato rendersi conto che negli ultimi mesi ci sono genitori sono stati messi in cassa integrazione, o se autonomi hanno visto la loro attività chiusa (pensiamo anche solo a baristi, parrucchieri ed estetisti chiusi forzatamente per tre mesi): come fare a rispettare gli oneri di mantenimento disposti dal Tribunale? Non ha caso si è letto nella cronaca di questi mesi di un vero e proprio Boom di genitori che non versano gli assegni. A tal riguardo, inoltre, occorre rammentare ed evidenziare che il mancato versamento dell’assegno di mantenimento determina conseguenze sia dal punto di vista civile, legittimando azioni esecutive di recupero del credito, sia sotto il profilo penale, rischiando di esser perseguiti per il reato di cui all’art. 570 bis c.p.; una plausibile soluzione alla problematica che qui ci occupa potrebbe essere individuata nell’istituto dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, disciplinata dagli artt. 1256 a 1258 del Codice Civile, ma nel frattempo l’obbligato si vedrebbe comunque quantomeno notificare un atto di precetto da opporre quanto al debito accumulato, per poi adire il Tribunale per ottenere una modifica per il futuro. Certo, a partire dai principi di buona fede, lealtà e correttezza ex artt. 1175 e 1176 c.c. interpretati alla luce del principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., che regolano l’esecuzione delle prestazioni la questione potrebbe risolversi con un accordo di negoziazione assistita che modifichi le condizioni di separazione o divorzio, sia pur limitatamente alla durata dell’emergenza, ma sappiamo bene che non sempre il clima lo consente.

Ed ancora vi sono figli che normalmente passano tempi significativi con ciascun genitore (pensiamo ai “pari tempo”, o alle settimane alternate, ad esempio), ma che in questi mesi, invece, per prudenza o impossibilità, non hanno visto l’altro genitore che pertanto non si è occupato mai di loro in maniera diretta, addossando all’altro genitore tutto il carico economico della spesa alimentare. Il tutto senza poter adire con celerità l’autorità Giudiziaria che nella fase di sospensione (dal 9 marzo all’11 maggio) poteva trattare solo questioni urgenti, nelle quali le statuizioni economiche normalmente non rientrano (cfr Tribunale di Busto Arsizio 03/04/2020). Zero certezze, tante difficoltà, e anche in questo caso poche e diverse risposte con il risultato di ostacolare l’effettiva genitorialità, aggravare i problemi economici ed alimentare il contenzioso futuro.

650 c.p. e dintorni, una norma in bianco dai contorni bizzarri…

Dell’Avv. Andrea Davoli

Non so per quale particolare evento verrà ricordato questo straordinario periodo dai posteri, ma per molti il Covid19 è stato contrassegnato da una volontà di controllo pubblico quasi feroce sul singolo cittadino, una tendenza già assai presente negli ultimi tempi, ma che con l’emergenza sanitaria ha assunto a tratti contorni a volte grotteschi.

L’ossessivo controllo degli organi di polizia, peraltro, è stato fortemente sostenuto dai media e dal terrore della diffusione del virus, ma non si può non ritenere plausibile che tra pochi anni rileggeremo con un certo sgomento le sanzioni comminate ai bimbi che giocano in un parco, o l’inseguimento con i droni di un runner sulla spiaggia oppure le sanzioni al barista che porta un caffè a due operanti della stessa polizia… 

Il giusto timore per il possibile verificarsi di un grave evento non può mai far dimenticare l’essenziale requisito della proporzionalità e della ragionevolezza nell’irrogazione della sanzione, che riposa nel naturalissimo requisito del buon senso… 

Questa tendenza del potere esecutivo a mettere in campo sforzi sproporzionati alla finalità del reato da accertare e/o da prevenire è però in atto da tempo, per tutti penso ad alcune operazioni di polizia in cui si bloccano le tangenziali in entrambi sensi di marcia per accertare lo stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti dei conducenti. Ora, senza nulla eccepire sulla necessaria prevenzione di questi o altri tipi di reati, la modalità di tali dimostrazioni muscolari spesso sembra non tanto volta al risultato concreto, poiché porta a un numero risibile di accertamenti in proporzione dei controlli effettuati e delle forze messe in campo, quanto a propagandare la capacità di controllo del cittadino.

Il controllo assoluto del potere esecutivo è sfociato nell’atto probabilmente più controverso dell’intero periodo emergenziale, e cioè nel pervicace tentativo di un Carabiniere di interrompere la celebrazione di una Messa a Gallignano, nel Cremonese, di cui si può vedere anche il video su youtube.

Ora, da giuristi è bene capire cosa succede nel caso concreto: il Carabiniere, pubblico ufficiale, apprende che si stanno violando le norme del dpcm Covid e decide di andare ad accertare i fatti, ma interrompendo la funzione commette il reato di cui all’art. 405 cp, cioè interrompe una funzione religiosa, quid iuris?

L’art. 51 cp prevede la non punibilità per il reato commesso per adempiere un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, ma ciò ci aiuta scarsamente, nessuno vuole l’incriminazione del comunque educato carabiniere, anche perché ci si deve chiedere se il giovane carabiniere era costretto a commettere il reato ex art. 405 cp, e cioè se era possibile un suo comportamento alternativo conforme alle norme. Forse ci si può chiedere se il pericolo di diffusione del virus fosse, almeno potenzialmente, ipotizzabile e che quindi un intervento fosse anche astrattamente necessario, ma dalle immagini si vede che la Chiesa è di grandi dimensioni e il numero di fedeli è pacificamente del tutto esiguo e lo stesso sacerdote dice che prenderà l’Eucarestia con le pinze. Le possibilità di contagio sono quindi irrisorie, l’assembramento non può essere individuato né individuabile e la mera prosecuzione della Messa non viola alcuna norma non essendo mai state cancellata, e sarebbe stato folle, la possibilità di celebrarla da parte del sacerdote, seppur in luogo non aperto al pubblico.

La violazione del dpcm poteva quindi essere pacificamente contestata alla fine della celebrazione senza alcuna turbativa come peraltro avvenuto per vari altri verbali recapitati alla residenza del presunto trasgressore 

E’ quindi pacifico che l’intervento delle forze dell’ordine anche in questo caso non risponda a una reale esigenza social preventiva ma si raffiguri più come un eccesso di volontà punitiva nei confronti del cittadino, quasi sempre incensurato. 

Da avvocato il pensiero non può non andare alla nota affermazione del Dott. Davigo che non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti, una battuta d’effetto che deve necessariamente rimanere tale per il mantenimento dei principi fondanti la nostra civilità.

COVID-19 e padri separati

dell’avv. Paola Mescoli

In questo periodo di segregazione cosa è avvenuto dei figli dei separati, stante l’obbligo di non muoversi da casa se non per comprovate esigenze di lavoro, salute, necessità? Fra quali degli spostamenti autorizzati si poteva collocare la tutela del rapporto tra genitore non collocatario e figli? Il diritto del genitore a visitare e tenere con sé il figlio doveva (o deve?) prevalere rispetto al diritto alla salute non solo del figlio, ma anche degli altri famigliari o parenti e della collettività?

La risposta del Governo è stata superficiale, lacunosa e contraddittoria, dando adito alle più diverse e contrapposte decisioni, lasciate alla libera interpretazione dei legali, delle forze dell’ordine ed in ultima battuta dei Tribunali, le cui decisioni sono state di gran lunga inferiori alle liti che vi sono state ed agli interventi delle stesse forze dell’ordine interpellate dall’uno o dall’altro dei genitori.

Ma anche le decisioni dei Tribunali sono state variegate e non uniformi.

Agli inizi sono state più favorevoli a garantire l’esecuzione dei provvedimenti giudiziari di separazione e divorzio esistenti, senza prendere in considerazione il rischio di contagio determinato dalle condizioni di salute, di lavoro ed ambientali del genitore non collocatario; la tutela della bigenitorialità doveva prevalere sulla tutela alla salute, come se le precauzioni richieste al resto della collettività dovessero essere obliterate di fronte all’affermazione dei diritti della genitorialità.

Poi, mano a mano che il contagio aumentava, le decisioni dei Tribunali sono diventate più caute e più restrittive e nel conflitto fra tutela della salute e tutela dell’esercizio della genitorialità si è cominciato a privilegiare la tutela della salute in quanto diritto di valenza costituzionale, che deve prevalere anche sulla esecuzione dei provvedimenti giudiziari (d’altronde subordinati nella gerarchia delle fonti).

In realtà i problemi interpretativi sono nati dalla poca chiarezza dei DPCM, che ogni volta avevano necessità di circolari esplicative, creando ulteriori confusioni. Da qui decisioni giudiziarie non uniformi.

Si è cominciato col DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) del 9 marzo 2020, che nulla disse in merito e il giorno dopo, alle domande immediate di genitori e legali, rispose con l’art. 13 nelle FAQ, disponendo che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore … sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione e divorzio“.

Quindi parve che il Governo decidesse che il diritto del genitore all’esercizio della bigenitorialità fosse superiore al diritto alla salute del figlio e della collettività.

Tale scelta però, per come formulata, determinò subito due problemi, fra i tanti: nei casi in cui non erano ancora stati pronunciati i provvedimenti e non vi era alcuna regolamentazione, come poteva il genitore non collocatario documentare la sua uscita di casa per visitare e prendere con sé il figlio?

Il suo diritto all’esercizio della paternità era inferiore a quello del padre separato con provvedimento di regolamentazione del suo diritto?

Come ci si regolava per i figli non matrimoniali per i quali non vi era stato tecnicamente alcun provvedimento di separazione o divorzio dei genitori? Infatti la procedura per la cessazione della convivenza è diversa.

Fu il Tribunale di Milano, conformandosi alle espressioni formali del decreto governativo, che subito, in data 11 marzo, affermò il principio che nessuna “chiusura” poteva giustificare violazioni dei provvedimenti di separazione o divorzio, in quanto il rispetto degli accordi presi sul tempo da passare con i figli è più vincolante delle direttive sull’isolamento.

Questa decisione creò subito problemi di disparità di trattamento con i genitori non separati, che dopo il 22.03.2020, svolgendo un lavoro o un’attività in un comune diverso dal luogo di abitazione o domicilio, non potevano fare rientro a casa e quindi non potevano vedere e stare con i loro figli che lì abitavano convivendo con loronon avendo provvedimentida esibire a chi li fermava. 

Successivamente si è avuto il DCPM 22 marzo, che vietò gli spostamenti da comune a comune, limitandoli a motivi di lavoro, salute ed assoluta urgenza ed eliminando le “situazioni di necessità”. Da lì iniziarono provvedimenti antitetici: chi riteneva che si creassero situazioni di disparità di trattamento fra figli di genitori residenti nello stesso comune e figli i cui genitori risiedevano in comuni diversi, anche se limitrofi, chi riteneva che dovessero ritenersi vietati tutti gli spostamenti dei figli da comune a comune, non sussistendo alcuna previsione che li autorizzasse, chi inseriva le visite ai figli fra “i motivi di salute” (nell’ambito della tutela dell’equilibrio psicofisico del minore).

Gli avvocati dei grandi tribunali cercarono di darsi rapidamente un protocollo o linee guida per orientare i propri assistiti nella più grande incertezza governativa e giudiziaria

Il primo aprile, sul sito istituzionale all’interno delle FAQ, vide la luce il “criterio del buon senso” (invocabile solo da chi non conosce i rapporti fra genitori separati!!) e venne ribadito da parte del governo che “gli spostamenti per raggiungere figli minorenni presso l’altro genitore oppure per condurli presso di sé sono consentiti anche da un comune all’altro, nel rispetto di tutte le prescrizioni di carattere sanitario ecc. e nel rispetto dei provvedimenti di separazione e divorzio, ma anche in assenza di tali provvedimenti, secondo quanto concordato tra i genitori “(?!)

Decine e decine di dubbi e soluzioni diverse lasciate agli stessi genitori (che ovviamente non trovavano l’accordo), ai loro avvocati o alle forze dell’ordine, chiamate ad applicare disposizioni programmatiche avulse dalla realtà dei rapporti spesso conflittuali fra i genitori! 

Il quesito giuridico rimase nella sua drammaticità, ma anche nella sua valenza costituzionale iniziale: “il diritto del genitore di spostarsi per raggiungere i figli è consentito sempre o solo se vi sia una situazione di reale necessità?”

E la tutela della salute? I tribunali nella maggioranza optarono per la tutela della salute, ma non tutti.

Il tribunale di Velletri in data 8 aprile modificò addirittura la collocazione di un minore di 10 anni, che in sede di separazione era stata fissata presso la madre, trasferendola presso il padre, dato che la madre lavorava in ospedale… 

Il Tribunale di Verona ha modificato i provvedimenti in essere fra i genitori separati (27/03/2020) stabilendo un collocamento alternato del figlio per evitare spostamenti troppo frequenti, là dove vi era una diversa regolamentazione.

A tutela della salute decisero il Tribunale di Vasto con decreto 02.04.2020, il  Tribunale di Napoli con decreto 26.03.2020(che vietò addirittura le visite del non collocatario alla residenza del collocatario) il Tribunale di Bari e la Corte d’Appello di Bari, entrambe con decreto 26 marzo 2020, che hanno esplicitamente dichiarato il diritto dei genitori ad incontrare i figli recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione, sospendendo le visite paterne, e, invocando “un diritto alla prudenza”, trasformando la frequentazione in contatti virtuali, tramite strumenti telematici (skype, whatsapp ed altri). Ciò per evitare il rischio di contagio da coronavirus legato allo spostamento dei bambini da un comune all’altro.

Ma in senso contrario il Tribunale di Roma (07/04/2000) ha autorizzato lo spostamento di un figlio dalla Calabria al Lazio e quello di Busto Arsizio 03/04/2000 ha cassato la sospensione degli incontri padre/figlio disposta dal Servizio Sociale dichiarando che i DPCM consentono, in via eccezionale, gli spostamenti durante l’epidemia, che si rendono necessari per ottemperare agli obblighi di visita dei figli disposti dal Giudice. L’incertezza derivante dall’attuale quadro normativo – caratterizzato da una convulsa successione di provvedimenti e dalla sovrapposizione di fonti normative di vario livello – è confermata anche dalla richiesta del 30 /03/2020 di chiarimenti formulata dall’Unione delle Camere Minorili. Infatti, l’Unione delle Camere Minorili, sulla premessa che “si è in presenza di diritti fondamentali, il diritto alle relazioni familiari e il diritto alla salute, riconosciuti dalla Carta Costituzionale e dalla CEDU che hanno pari rango, ma vanno bilanciati ponendo al centro di tale equilibrio il migliore interesse delle persone minori di età”, ha richiesto al Governo un chiarimento in merito alla legittimità degli spostamenti per le visite ai figli e per i ricongiungimenti con la propria famiglia, anche da un comune all’altro o da una regione all’altra, ovviamente con le cautele del caso per ridurre il rischio di diffusione del contagio, e fatti salvi gli obblighi di quarantena. In un siffatto contesto vi è il rischio concreto che si pervenga, in modo irragionevole, a soluzioni difformi a seconda del luogo in cui sono ubicati i figli ed i genitori e della relativa normativa regionale o, addirittura, comunale, di volta in volta applicabile. Infatti vi è stato anche chi ha fatto distinzione fra i figli infra seienni e quelli di età superiore ai 6 anni (i primi non dovevano spostarsi gli altri sì)

A Reggio E. invece– inaudita altera parte- un padre, residente a Bolzano con nuova famiglia e altri figli, è stato autorizzato dal Giudice Tutelare a venire a prendere il figlio residente in provincia di Reggio E. per portarselo a casa, attraversando di fatto due o tre zone rosse. Di fronte alla opposizione della madre il Giudice ha prescritto al padre di portare con sé i certificati di non positività dei famigliari (che egli non portò). 

I Carabinieri di Verona all’opposto hanno impedito ad un padre di Reggio E. di prelevare i figli a Verona per portarli nella propria residenza, mentre un padre abitante a Reggio E., che viaggia quotidianamente in treno per lavoro, recandosi a Milano, ha potuto vedere e tenere con sé i figli secondo i provvedimenti del divorzio.

La genericità degli interventi del governo così ha esposto al rischio contagio decine di minori ed i consigli di usare il buon senso e di trovare la soluzione giusta per ogni caso concreto, evitando la compressione sia dei diritti costituzionali che di quelli personali, sono stati semplicemente irenici.

In sintesi, mentre all’inizio l’opinione generale era orientata, come di consueto, alla difesa dei diritti individuali (e quindi alla tutela della genitorialità), in seguito la gravità del contagio ha fatto riemergere la necessità di tutelare anche il bene comune. Questo però ha comportato il problema di armonizzare le due esigenze, a cui il Governo ha risposto con un eccessivo autoritarismo cercando di determinare per decreto legge le singole situazioni umane. Per ora non siamo ancora giunti a soluzioni valide, come si è visto con l’ultimo decreto impostato sulle “relazioni stabili”

Diritto penale e Coronavirus

della dott.ssa Rossella Iandoli

Tante sono le questioni che toccano il diritto penale riguardo al Coronavirus, ci limitiamo di seguito a descriverne solo alcune premettendo che l’intento non è quello di criticare le scelte adottate, ma piuttosto di riflettere in modo costruttivo.

Riserva di legge in materia penale

Le misure limitative introdotte dal D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e dai DPCM che si sono susseguiti hanno posto non pochi dubbi sulla legittimità costituzionale. 

Nel nostro ordinamento vige il principio di legalità e determinatezza, che sotto il profilo penalistico viene enunciato all’art. 25 co.2 della Costituzione, per salvaguardare i cittadini da eventuali abusi del potere giudiziario. Se un problema preliminare sulla gerarchia delle fonti e sull’uso del decreto legge è giustificato dalla situazione emergenziale, da ragioni di necessità ed urgenza, che legittimano il ricorso a questo strumento, anche se si tratta di una disciplina fortemente incisiva della libertà personale, rimangono comunque perplessità per quanto riguarda il principio di determinatezza.

Il nuovo D.L. 25 marzo 2020, n.19 ha però eliminato l’illecito penale (solo) per chi non rispetta la “quarantena fiduciaria”, introducendo un illecito amministrativo, forse anche per contenere il sistema della giustizia penale già sovraccarico. Il Ministero dell’Interno infatti, aveva reso noto che solo tra l’11 e il 14 marzo sono state denunciate per la sola violazione dell’art 650 c.p. oltre 20.000 persone.

Responsabilità medica e tutela degli operatori sanitari 

Molto si parla dell’esigenza, in presenza del deficit di organico, in cui ci si è trovati costretti a servirsi di altri operatori sanitari, anche se privi della necessaria specializzazione. Da parte di questi vi è un’assunzione volontaria del rischio, di norma punibile a titolo di colpa perché si viola una regola cautelare prudenziale. In altri drammatici casi i medici hanno dovuto valutare, fra pazienti con diverse speranze e possibilità di sopravvivenza, chi includere o escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione: la scelta di chi curare prima o addirittura non curare.

Sicuramente ci dovrà essere una valutazione caso per caso e un accertamento dei loro obblighi, ci si chiede però se sia giusto o meno esonerare la loro responsabilità medica e chiedere uno scudo penale, che è attualmente garantito solo per le ipotesi dell’art 590 sexies c.p.( ma ad oggi privo di linee guida riguardo l’emergenza), che “scrimini” in qualche modo la loro omissione, o la loro condotta negligente e imprudente, dettata da una situazione imprevedibile e oltremodo stressante. 

Criminalità

Alcuni stanno analizzando come cambia la criminalità alla luce della situazione che stiamo vivendo. Si parla di un aumento dei reati informatici, verosimilmente c’è una serie di reati che diminuiscono come i furti in appartamento. Si segnala un incremento delle violenze domestiche, poiché la convivenza forzata può portare ad aumento di reati in ambiente domestico, e quindi violenza di genere. 

Si pongono problematicità criminali legate al mondo dell’economia , truffe e frodi fiscali che possono essere poste in essere per cercare di carpire fraudolentemente finanziamenti pubblici. Inoltre tutto il tema della crisi d’impresa, pensando a quante aziende andranno incontro o sono chiamate a gestire la crisi per effetto del coronavirus.

Sovraffollamento delle carceri

Problema non di certo nuovo, ma che si è ingigantito sin dall’inizio del lockdown , e ha portato i detenuti, in preda al panico, a gravose rivolte all’interno degli istituti penitenziari. 

Il rischio della diffusione del virus è maggiore poiché queste strutture sono chiuse, e si presenta un sovraffollamento di ben il 120% in più ( dati del Ministero della Giustizia al 29 febbraio 2020) della capienza normale. Si conviene quindi che il distanziamento sociale è impossibile da realizzare, dal momento che le condizioni igieniche sono spesso precarie, e anche il solo lavarsi le mani risulta difficile. Si consideri inoltre che lo stato di salute dei detenuti è già cagionevole, dal momento che il 67% di loro risulta avere almeno una patologia pregressa, che li porta ad essere considerati soggetti a rischio.

Gli interventi presi dal Governo sono: colloqui in presenza sospesi e sostituiti con quelli “da remoto” ( videoconferenza); misure alternative (detenzione domiciliare e semilibertà) con procedure semplificate per i nuovi detenuti. Timidi rimedi se guardiamo all’operato intrapreso da altri paesi. 

Condizione degli stranieri e dei soccorsi in mare 

Si solleva inoltre il rischio di contagio dentro i centri per gli stranieri , sia in quelli che hanno una forma simil detentiva come i centri temporanei per il rimpatrio, sia nei centri per i richiedenti asilo dove non c’è una forma di vera e propria detenzione ma comunque un rischio di contrarre il virus.

A ciò si aggiunge il tema dei soccorsi in mare sotto il profilo della responsabilità penale di chi soccorre gli immigrati, tema che si incrocia con quello del Covid, dopo l’emanazione del decreto interministeriale sull’operatività dei porti del 7 aprile 2020 in cui si è disposto che, per l’intero periodo di emergenza sanitaria, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e la definizione di Place of Safety ai sensi della Convenzione di Amburgo”.

In questo scenario tornano dunque ad affacciarsi le problematiche relative agli eventuali profili di responsabilità penale dei comandanti degli equipaggi, delle navi, e delle ONG impegnati nelle operazioni di search and rescue che si concludono in un porto italiano.

Covid e sovraffollamento delle carceri

dell’Avv. Maria Luigia Marceddu

Il problema del sovraffollamento delle carceri è un autentico attentato alla Costituzione, a cui si aggiunge anche l’uso sproporzionato dell’utilizzo della carcerazione preventiva.

Le problematiche legate al possibile contagio da coronavirus hanno riaperto il problema, anche in considerazione delle sommosse che sin da subite sono scoppiate nelle carceri italiane in tutta Italia, e che hanno causato i primi morti.

Per ridurre il sovraffollamento, il decreto legge del 16 marzo scorso prevede gli arresti domiciliari per detenuti che ancora devono scontare sino a 18 mesi di carcere e, quando il residuo pena sia superiore a 6 mesi, l’obbligo del braccialetto elettronico. 

Occorre precisare che i limiti posti all’autorizzazione dei domiciliari sono molti, per evitare che la necessità di svuotare le carceri determini l’uscita di detenuti particolarmente pericolosi che stanno per finire di scontare la condanna.

Infatti ciò che ha suscitato maggior clamore sono stati alcuni provvedimenti della magistratura di sorveglianza che hanno concesso, in considerazione dell’emergenza sanitaria, la detenzione domiciliare a detenuti per reati di mafia che si trovano in carcere in regime di 41 bis in gravi condizioni di salute.

E ciò grazie a quanto stabilito dal dall’art 2 del decreto legge del 30 aprile 2020 n. 28 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2/05/2020.

L’articolo citato modifica infatti la disciplina in vigore in relazione ai permessi di necessità ed alla detenzione domiciliare umanitaria o in surroga.

I casi considerati sono due, il primo verificatosi a Milano, ove il Magistrato di Sorveglianza ha emesso in via provvisoria ed urgente ordinanza con la quale ha ritenuto di concedere il beneficio della detenzione domiciliare ad una persona di età avanzata (78 anni) il cui quadro patologico (patologie di tipo cardiaco ed oncologico) lo avrebbe esposto a conseguenze particolarmente gravi in ipotesi contagio da Covid 19.

Il secondo caso riguarda il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, che ha concesso la detenzione domiciliare per il periodo di cinque mesi ad un noto boss condannato a 20 anni di reclusione per reati di mafia.

Anche in questo caso la diagnosi clinica del detenuto è una forma tumorale aggressiva che necessita di un programma indifferibile; il problema era sorto in quanto il centro ospedaliero presso il quale il condannato avrebbe dovuto svolgere le cure era divenuto centro covid. Le detenzioni domiciliari e i permessi di necessità sono le uniche misure che, proprio per le finalità umanitarie, possono essere applicate ai detenuti sottoposti al regime detentivo speciale del 41 bis e possono essere concesse dai giudici di sorveglianza previo parere del procuratore antimafia.

L’apertura della fase 2 nel nostro Paese appare sicuramente problematica per le carceri, considerato che in esse i casi di contagi sono aumentati, addirittura quadruplicati negli ultimi 22 giorni.

L’attenzione è sicuramente alta, e le aziende sanitarie hanno già iniziate a fare il test sierologico a tutto il personale delle carceri.

Vedremo come sarà affrontata dal Governo anche l’impennata dei contagi nelle carceri, contagi che, anziché diminuire come avviene in tutto il resto d’Italia, visti gli spazi angusti e le distanze ridotte, aumentano.

Sovraffollamento delle carceri

della dott.ssa Rossella Iandoli

È un problema non di certo nuovo, ma che si è ingigantito sin dall’inizio del lockdown, e ha portato i detenuti, in preda al panico, a gravose rivolte all’interno degli istituti penitenziari. 

Il rischio della diffusione del virus è maggiore poiché queste strutture sono chiuse, e si presenta un sovraffollamento di ben il 120% in più (dati del Ministero della Giustizia al 29 febbraio 2020) della capienza normale. Si conviene quindi che il distanziamento sociale è impossibile da realizzare, dal momento che le condizioni igieniche sono spesso precarie, e anche il solo lavarsi le mani risulta difficile. Si consideri inoltre che lo stato di salute dei detenuti è già cagionevole, dal momento che il 67% di loro risulta avere almeno una patologia pregressa, che li porta ad essere considerati soggetti a rischio. 

Il Governo ha previsto che i colloqui con i detenuti avvengano ‘da remoto’, e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020. Ci si è resi conto però, che la lotta all’epidemia da coronavirus non poteva essere condotta semplicemente adottando qualche precauzione al suo interno. Per questo, nell’ambito del c.d. decreto ‘cura Italia’ (d.l. 17 marzo 2020 n, 18) si è cercato di evitare l’ingresso di nuovi detenuti provenienti dall’esterno, prevedendo il ricorso a misure alternative (detenzione domiciliare e semilibertà), con presupposti diversi e procedure semplificate rispetto alla disciplina ordinaria, allo scopo di ridurre in tempi brevi il numero dei detenuti.

Lo strumento principale è stato individuato nella detenzione domiciliare, più precisamente nella particolare forma di detenzione domiciliare disciplinata dalla L. 26 novembre 2010, n. 199, un istituto con il quale per effetto di questa misura sono usciti negli anni quasi 27000 detenuti (dati del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2019). 

Si consente così l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio (da intendersi come abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza), a condizione che la pena non sia superiore a 18 mesi, anche quando si tratti del residuo di una maggior pena.

Potremmo chiederci come mai si è scelto di conservare il limite di diciotto mesi previsto nella disciplina generale del 2010, in un momento in cui la misura va adattata ad una situazione di assoluta emergenza, nella quale la salute collettiva corre gravi pericoli. Scelta poco comprensibile, considerato che si tratta di introdurre una disciplina speciale a carattere temporaneo: è infatti previsto nel decreto legge che la nuova disciplina possa trovare applicazione fino al 30 giugno 2020.

Inoltre, secondo il decreto “cura Italia”, è condizione necessaria, per il controllo della misura cautelare, l’uso dei c.d. braccialetti elettronici, i quali sono però insufficienti rispetto al numero realmente necessario. Insomma si notano timidi rimedi, se guardiamo all’operato di altri paesi.

Rapporti tra la Chiesa e le strutture economiche. Le origini

sono liete di invitarVi alla conferenza di

Don Andrea Pattuelli

Direttore dell’Ufficio Giuridico Pastorale della Diocesi

Rapporti tra la Chiesa e le strutture economiche. Le origini”

21 Maggio 2020 ore 18,00

https://us04web.zoom.us/j/74638453449?pwd=aTlOTGlPM2ZxdHlZV3p0dUUrUG9sZz09

Incontro tramite la piattaforma Zoom: cliccare sul link per connettersi.

Meeting ID: 746 3845 3449

Password: 8vtpA7

Ma i DPCM Conte sono costituzionali?

Dell’Avv. Federica Davoli

Nelle polemiche e nei dibattiti suscitati in modo abbastanza comprensibile da una crisi grave come quella del coronavirus, si è inserita anche l’accusa al Presidente Conte di aver violato i principi costituzionali. L’accusa è grave in sé, e va esaminata con cura, poiché può produrre conseguenze molto serie e può essere ripresa in modo anche più drammatico una volta terminata la fase virulenta del contagio; d’altra parte interessa in particolar modo noi cattolici, dato che l’espetto più appariscente dell’anticostituzionalità dell’operato del Governo in questi mesi è data dall’ingerenza nei momenti pubblici della vita religiosa della Chiesa e dei singoli cittadini.

Le decisioni del Presidente del Consiglio dei Ministri sono ovviamente la sintesi di istanze diverse e possono essere valutate sotto angolature molto differenti; principalmente si può dire che egli era ed è stretto da una parte dalla necessità di rispondere ad una situazione molto grave, dall’altra dal dovere inderogabile di rispettare la legge e la Costituzione. Questa infatti è stata concepita dai nostri padri come un documento rigido, proprio per la convinzione che l’utilità in un dato momento storico non è mai superiore al bene che viene dall’osservanza del valore superiore della giustizia. 

Come giuristi, pensiamo di poter contribuire alla riflessione comune esaminando gli aspetti giuridici dell’operato del presidente Conte. 

Preliminarmente conviene precisare che il riferimento che a volte si fa ad una “situazione di emergenza” per giustificare il suo operato non ha valore giuridico. La Costituzione prevede che, dopo aver dichiarato lo “stato di guerra” il Parlamento possa attribuire al Governo poteri straordinari (art. 78) e solo dopo una legge con cui vengano stabiliti esattamente i limiti di tali poteri. Lo stato di Guerra deve poi essere dichiarato dal Presidente della Repubblica

Dato che questo non è avvenuto, il Presidente deve rispondere della costituzionalità dei suoi singoli atti come di consueto. E’ necessario dunque un esame analitico di questi ultimi.

Sul piano formale si può sostenere che le procedure seguite da Conte – emettere provvedimenti governativi, sanandoli con un atto legislativo, il Decreto Legge, che passi in ultima battuta dal Parlamento per il controllo successivo – rispettano formalmente la Costituzione; esse però hanno violato due elementi importanti della Carta Costituzionale: non è il Governo, ma il Parlamento ad essere titolare del potere di incidere sulle libertà personali; non sono i tecnici, ma è sempre il Parlamento ad avere il potere di stabilire le norme che regolano la vita dei cittadini.

Con questo si passa sul piano dei contenuti.

Numerosi Costituzionalisti si sono interrogati sulla legittimità costituzionale dei provvedimenti governativi con riferimento ai seguenti articoli:

art. 7: separazione dei poteri fra lo Stato e la Chiesa. Nessun organo delle Stato italiano ha il potere di vietare di svolgere cerimonie religiose. La chiesa cattolica, nei confronti dello Stato italiano, è nella stessa posizione in cui si trovano lo stato tedesco o quello francese rispetto allo stato italiano.

art. 13: libertà personale. I provvedimenti governativi in sintesi dicevano: “non puoi andare da nessuna parte, e se ti trovo fuori casa senza giustificazione accettabile sei sanzionato”; tali limitazioni, però, valgono solo per le persone agli arresti domiciliari. Non esiste alcuna legge che attribuisca al Governo il potere di tale invasione nella sfera personale dei cittadini; anzi, la Costituzione prevede che sia possibile limitare la libertà personale solo con atto dell’autorità giudiziaria e nei casi e modi stabiliti dalla legge.

art. 16 sulla libertà di circolazione. Fino ad oggi, le limitazioni alla circolazione venivano imposte alle persone malate, non a quelle sane.

art. 17 sulla libertà di riunione. La Costituzione prevede la possibilità per l’autorità di limitare le riunioni in luoghi pubblici, ma non prevede la possibilità di medesimo limite per le riunioni in luoghi privati.

art. 19 sulla libertà di culto, visti gli eccessi a cui sono giunte le forze dell’ordine facendo irruzione nei luoghi di culto e interrompendo le celebrazioni;

art. 24 sul diritto di difesa. La sospensione sine die dell’attività giurisdizionale ha di fatto compresso la tutela dei diritti delle persone.

Art. 25: riserva di legge in materia penale e determinatezza del comportamento che costituisce reato.

art. 33 sul diritto all’istruzione, data la chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado. Si dirà che le scuole hanno attivato la didattica a distanza, dimenticando che, soprattutto per i bambini dei primi cicli di istruzione, la presenza in classe ed il rapporto con i maestri è fondamentale per la crescita e la formazione. A ciò si aggiunge il fatto che non tutte le famiglie sono provviste di tanti apparati elettronici che permettano a più di un figlio di seguire le lezioni, e non tutte le famiglie sono culturalmente preparate a supportare il processo di apprendimento dei figli.

art. 41 libertà di iniziativa economica

art. 42 sul diritto di proprietà. La Costituzione prevede che sia limitata per assicurarne la funzione sociale e per renderla accessibile a tutti.

In tempi più recenti, grazie alle fantasiose interpretazioni degli organi locali, si sono avute persino violazioni all’art. 3 sul principio di uguaglianza.

Quest’elenco sembra opera di un maniaco del diritto, ma non va sottovalutato, date le implicazioni che possono avere le singole voci; si pensi ad esempio che ad esse sono collegate le sanzioni che sono state comminate in questo periodo, che sono destinate a decadere se si decide sull’incostituzionalità dell’atto in base al quale sono state prese. Per questo possiamo concludere che potrebbe essere un buon elemento di pacificazione l’annullamento delle salatissime multe per infrazione all’ordine di segregazione; si eviterebbe anche il marasma delle liti giudiziarie che incombe, visto che parecchie saranno contestate.

Chiesa e Stato oggi

Del Prof. Zeno Davoli

Il problema del rapporto tra Chiesa e Stato può sembrare risolvibile in teoria, ma rimane eternamente aperto nella vita pratica. 

In teoria si può considerare definitiva l’affermazione di Cristo: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”; nella realtà essa ci definisce solo il punto di partenza, cioè la separazione tra Chiesa e Stato, ma non ci dice nulla del punto di arrivo, cioè sul comportamento pratico per realizzate tale principio. Essa infatti è un principio religioso, cioè valido per ogni tempo, mentre il campo politico è quello in cui i singoli tempi mettono in pratica concretamente la loro cultura per realizzare i loro fini.

Se ripensiamo un attimo alla storia, vediamo che la causa di tale problema è data dal fatto che i due elementi antagonisti non riconoscono nessuna realtà terrena al di sopra di sé: la Chiesa religiosamente si appella a Dio, lo Stato a principi e valori che la sua stessa cultura ha creato, ma ha definito ugualmente, in modo laicamente religioso, certi e inviolabili.

Oggi sembra tornare di attualità un elemento fortemente dibattuto negli anni caldi della Questione Romana: allora da parte cattolica chi si opponeva al principio cavourriano di “libera Chiesa in libero Stato” accusava di doppiezza i liberali, affermando che essi in realtà sostenevano il principio: “libera Chiesa in Stato sovrano”. Oggi infatti, a causa del coronavirus, lo Stato precipitosamente si è ritenuto in diritto di legiferare anche nell’ambito della vita della Chiesa. Con ciò ritorna evidente da un lato la difficoltà della separazione, in pratica, tra i due poteri, dall’altro l’importanza ed il significato dei Concordati, che in epoca moderna sono visti come il mezzo migliore per realizzare la pace religiosa. D’altra parte, se si studia la legislazione di questi ultimi decenni, si può rilevare come essa conceda ai rappresentati dello Stato – ad esempio ad un semplice Sindaco – poteri tali da determinare se non una vera persecuzione religiosa, almeno un’ingerenza ostile e abusiva nella vita dei credenti.

Nella situazione attuale la Chiesa ha seguito con piena collaborazione le delibere statali, tanto da far sorgere in alcuni l’impressione di una subordinazione troppo supina, e quindi colpevole, all’improvvisa ingerenza dello Stato. Conviene allora fare alcune precisazioni, sperando che servano a passare dalle difficoltà attuali ad una ricomposizione a livelli più evoluti del problema dei rapporti tra Chiesa e Stato, 

In primo luogo, vista la facilità con cui la situazione concreta può spingere uno dei due elementi a prevaricare sull’altro, è importante che cattolici e laici recuperino la coscienza di cosa vuol dire separazione tra Chiesa e Stato, che si ribadisca la necessità che la Chiesa sia sentita come struttura autonoma e sovrana e quindi che si ripensi ai concordati non come una soluzione di comodo o una concessione dello Stato alla Chiesa, ma come uno strumento che, regolando elementi molto delicati, va rispettato con scrupolo da entrambe le parti.

In secondo luogo bisogna considerare che il riconoscimento dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato non si radica, anche in un pensiero laico, solo sul diritto fondamentale di tutti gli uomini alla libertà religiosa. Soprattutto se consideriamo la società italiana, vediamo facilmente che il rapporto della comunità civile con la realtà cattolica trae la sua ragione anche dal dovere dello Stato di realizzare il bene comune. Non si tratta solo di un fatto culturale (senza il cattolicesimo non comprenderemmo né Dante né Michelangelo), né del fatto che senza il volontariato cattolico il nostro debole Stato andrebbe in crisi: per tanti secoli principi e sensibilità religiosa hanno alimentato la vita e il sentire degli uomini, che il cattolicesimo è diventato parte e radice del nostro essere, tagliando la quale l’uomo rimarrebbe nudo. Esso rimane dunque – per così dire – come il linguaggio spirituale che cementa gli uomini in una comunità e in una civiltà e che permette allo Stato di dialogare e di realizzarsi come comunità di cittadini.

Pandemia e Diritto Amministrativo. Una emergenza “amministrativa”

Dell’Avv. Matteo Fortelli

La produzione normativa volta a contrastare il coronavirus si è caratterizzata per un largo utilizzo, da parte del Governo, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), fonte secondaria, regolamentare, di tipica natura amministrativa.


In altre parole, il Governo ha dato applicazione alla legge con strumenti di diritto amministrativo, nell’esercizio di un potere discrezionale. Il potere discrezionale, quello ordinariamente utilizzato dalle pubbliche amministrazioni di tutti i tipi, dal Comune che rilascia una licenza commerciale, alla Regione che concede un finanziamento, alla Prefettura che emette un porto d’armi, deve non solo perseguire gli scopi fissati dalla legge, ma soprattutto attenersi, nelle modalità con cui li realizza, a determinati canoni.

Quali sono questi canoni? L’Amministrazione deve essere anzitutto strettamente rispettosa dei confini dati dalla legge, specie se una legge limitativa di diritti costituzionali; poi deve adottare misure razionali, proporzionate, efficaci, efficienti, adeguate agli obiettivi proposti, rispettose anche degli altri interessi secondari coinvolti, in particolare dei privati. 

I DPCM di gestione dell’emergenza hanno rispettato tali canoni?
La questione può aprire profili interessanti; qui per forza di cose solo abbozzati, anche in ragione dell’evoluzione continua delle circostanze.

DPCM o DL?

La prima riflessione riguarda proprio l’utilizzo dello strumento del DPCM. Il Governo ha inteso regolamentare l’emergenza con questo strumento agile, ma la Costituzione stessa, in casi come questi, impone la “riserva di legge assoluta”: può essere solo una legge primaria (legge ordinaria, decreto-legge, decreto legislativo) a porre limiti a libertà costituzionali. 

Il Governo ha pensato quindi di emettere decreti-legge, che autorizzassero l’emissione di DPCM. L’effetto è stato un po’ straniante: il Governo, nell’esercizio di un potere legislativo, coi D.L. 6/2020 e 19/2020, indicava al Governo, quale organo esecutivo, quali provvedimenti amministrativi adottare. 

Il problema sta nel fatto che, se c’è una “riserva di legge assoluta”, i provvedimenti attuativi (i DPCM, per capirci) possono essere solo strettamente esecutivi di quella legge e mai allargarne i confini. 

I vari DPCM si sono mantenuti nei confini? 

Il D.L. 19/2020, all’art. 3 comma 2, ha espressamente dichiarato la validità dei DPCM precedenti (8-9-11 e 22 marzo), quasi come per assorbirli: evidentemente lo stesso Governo ha ritenuto di non essere stato sempre nei confini, tanto da necessitare questa specie di “sanatoria”.

Ma il tema può essere analizzato anche su di un altro piano: perché scegliere di limitare le libertà con continui DPCM e non direttamente con decreti-legge, che la Costituzione prevede appunto per i casi straordinari di “necessità e urgenza”? 

Se è vero che sempre di atti del Governo si tratta, gli strumenti sono molto diversi. 

Il decreto-legge chiede il coinvolgimento dell’intero Governo, che lo adotta, nonché la emissione, come forma di controllo, del Presidente della Repubblica; e il necessario passaggio parlamentare della conversione in legge entro 60 giorni, a pena di nullità.

Il DPCM è invece espressione di un organo monocratico, il solo Presidente del Consiglio. 

Davvero la necessità e l’urgenza non consentivano, o le limitazioni a libertà costituzionali non meritavano, di affrontare il problema con forme più collegiali? 

Tra l’altro, per inciso, il D.L. è uno strumento pensato per affrontare l’urgenza, con prescrizioni immediate; in tal modo lo si è ridotto ad una sorta di “autorizzazione” a emettere futuri DPCM, paradossalmente ritardandone l’effetto.

Proporzionalità

Un secondo profilo interessante, potrebbe riguardare poi le prescrizioni concrete dei DPCM. Già abbiamo detto che, se poste al di fuori dei confini dei limiti stabiliti dai D.L., esse si potrebbero configurare come illegittime. Vorremmo però addentrarci oltre: rispetto agli stessi obiettivi posti dai decreti-legge, si tratta di prescrizioni razionali, proporzionali, adeguate?

Il principio di proporzionalità è uno dei principi fondamentali del diritto amministrativo e viene tradotto in due valutazioni: se l’atto è idoneo a ragionevolmente far conseguire il risultato e se è quello strettamente necessario a farlo, ossia se è il mezzo più mite disponibile, tra tutti quelli individuati come idonei. 

Qualche esempio: non è proporzionato escludere una ditta da una gara se nella domanda non ha indicato informazioni secondarie, che possono essere acquisite in un secondo momento1; oppure estendere eccessivamente un vincolo paesaggistico a tutela di un bene culturale, tale da coinvolgere indirettamente altri beni siti a notevole distanza e per nulla incidenti sul bene culturale stesso2; o ancora annullare un provvedimento favorevole a un privato, a distanza di tempo, adducendo una irregolarità forse anche esistente allora, ma non più significativa nell’oggi3; e così via. 

Al tempo stesso, la proporzionalità impone che lo strumento possa ragionevolmente far conseguire lo scopo: un atto inefficace, inefficiente non è neppure proporzionato. 

Insomma: l’azione amministrativa deve essere razionale, non blanda né sovraccarica. Puntuale nell’individuare i suoi obiettivi – che sempre traggono origine dalla legge -, precisa nell’approntare i mezzi, adeguata nel rapporto tra i primi e i secondi.

Quale scopo?

Scorrendo le varie prescrizioni dei DPCM, ma anche i provvedimenti degli Enti locali, viene da chiedersi se essi effettivamente abbiano sempre rispettato tale canone. 

Certo non sempre sono state chiare le stesse finalità di legge, sospese tra il contenimento del contagio, il contrasto al contagio, il tracciamento degli infetti4 ed evitare il collasso del Servizio Sanitario Nazionale (finalità tutte enunciate, per legge o per televisione, ma non esattamente coincidenti, a ben vedere). A fronte di tali obiettivi, il principio di proporzionalità degli atti esecutivi sempre è stato rispettato?

Scorrendo le varie prescrizioni, sia dei DPCM sia degli Enti locali a cui è stato conferito eguale potere, abbiamo appreso di limitazioni all’attività fisica tout court, di imposizioni del numero di accessi ai supermercati per famiglia, addirittura con obbligo di individuazione di un unico familiare legittimato, di limitazioni agli esercizi commerciali più restrittive di quelle imposte ad altro livello, fino alla espressa dichiarazione che determinati divieti non riguardassero per nulla il rischio di contagio, ma servissero unicamente a “dare l’idea ai cittadini di un regime duro”. 

Pare abbastanza evidente la sussistenza di problemi di proporzionalità, di adeguatezza nella scelta dello strumento meno invasivo; che forse talvolta hanno sconfinato nello “sviamento di potere”, ossia nell’utilizzo di un potere per finalità diverse da quelle per cui è stato attribuito. 

È facile ravvisare come tali ambiguità abbiano portato a stress pure l’ulteriore esercizio del potere amministrativo in sede di sanzione della trasgressione. Le forze di Pubblica Sicurezza si sono trovate ad applicare norme che intendevano molto più di quello che dicevano, con esiti talvolta paradossali.

Al tempo stesso, sull’altro versante della proporzionalità che è l’adeguatezza, troviamo nei DPCM molto spesso l’utilizzo della “raccomandazione”. Non si prescrive, ma si raccomanda, a volte anche “fortemente”: agli anziani e immunodepressi di non uscire (DPCM 4/3/20 art. 2), ai febbricitanti di stare in casa (DPCM 8/03/20, art. 1), agli imprenditori di concedere le ferie, di fare smart-working e di sanificare i locali (DPCM 11/03/20 art. 1), e così via. Un provvedimento amministrativo può essere utilizzato in funzione, per così dire, di moral suasion? E quale efficacia produce rispetto a chi non osserva la raccomandazione? È sindacabile in sede giurisdizionale, ossia può essere annullato da un Tribunale? E quale responsabilità determina, in capo all’Autorità che lo emette?

La riapertura

Le considerazioni esposte non mirano a mettere in discussione la gestione dell’urgenza e l’efficacia delle concrete decisioni assunte (siamo tutti convinti che a un lockdown si dovesse comunque pervenire, specie alla luce dei dati sanitari già di tre mesi fa); piuttosto hanno mira al futuro, alle fasi di riapertura nelle quali le scelte saranno, anche nel merito, meno “vincolate”, e dovranno tenere conto della variegata complessità dell’intero territorio italiano, così come della diversa diffusione del virus nelle varie zone e Regioni.

In tale contesto, un utilizzo eccessivamente disinvolto degli strumenti della discrezionalità amministrativa deve essere assolutamente evitato, per non cagionare storture anche gravi, nel rapporto tra “autorità” e “libertà”, tra governanti e cittadini, che caratterizza, nella sua essenza, il diritto amministrativo.

1 Consiglio di Stato n. 2183/2020

2 TAR Puglia Lecce n. 347/2020

3 Consiglio di Stato n. 1837/2020

4 Forse non tutti ricordano che originariamente il D.L. 6/2020 prevedeva all’art. 1 la possibilità di emettere i provvedimenti limitativi principalmente “nelle aree nelle quali vi sia almeno un contagiato per cui non si conosce la fonte di trasmissione o comunque non riconducibile ad aree già interessate dal contagio”, facendo quasi intendere che il problema principale fosse il tracciamento degli infetti