Pandemia e Diritto Amministrativo. Una emergenza “amministrativa”

Dell’Avv. Matteo Fortelli

La produzione normativa volta a contrastare il coronavirus si è caratterizzata per un largo utilizzo, da parte del Governo, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), fonte secondaria, regolamentare, di tipica natura amministrativa.


In altre parole, il Governo ha dato applicazione alla legge con strumenti di diritto amministrativo, nell’esercizio di un potere discrezionale. Il potere discrezionale, quello ordinariamente utilizzato dalle pubbliche amministrazioni di tutti i tipi, dal Comune che rilascia una licenza commerciale, alla Regione che concede un finanziamento, alla Prefettura che emette un porto d’armi, deve non solo perseguire gli scopi fissati dalla legge, ma soprattutto attenersi, nelle modalità con cui li realizza, a determinati canoni.

Quali sono questi canoni? L’Amministrazione deve essere anzitutto strettamente rispettosa dei confini dati dalla legge, specie se una legge limitativa di diritti costituzionali; poi deve adottare misure razionali, proporzionate, efficaci, efficienti, adeguate agli obiettivi proposti, rispettose anche degli altri interessi secondari coinvolti, in particolare dei privati. 

I DPCM di gestione dell’emergenza hanno rispettato tali canoni?
La questione può aprire profili interessanti; qui per forza di cose solo abbozzati, anche in ragione dell’evoluzione continua delle circostanze.

DPCM o DL?

La prima riflessione riguarda proprio l’utilizzo dello strumento del DPCM. Il Governo ha inteso regolamentare l’emergenza con questo strumento agile, ma la Costituzione stessa, in casi come questi, impone la “riserva di legge assoluta”: può essere solo una legge primaria (legge ordinaria, decreto-legge, decreto legislativo) a porre limiti a libertà costituzionali. 

Il Governo ha pensato quindi di emettere decreti-legge, che autorizzassero l’emissione di DPCM. L’effetto è stato un po’ straniante: il Governo, nell’esercizio di un potere legislativo, coi D.L. 6/2020 e 19/2020, indicava al Governo, quale organo esecutivo, quali provvedimenti amministrativi adottare. 

Il problema sta nel fatto che, se c’è una “riserva di legge assoluta”, i provvedimenti attuativi (i DPCM, per capirci) possono essere solo strettamente esecutivi di quella legge e mai allargarne i confini. 

I vari DPCM si sono mantenuti nei confini? 

Il D.L. 19/2020, all’art. 3 comma 2, ha espressamente dichiarato la validità dei DPCM precedenti (8-9-11 e 22 marzo), quasi come per assorbirli: evidentemente lo stesso Governo ha ritenuto di non essere stato sempre nei confini, tanto da necessitare questa specie di “sanatoria”.

Ma il tema può essere analizzato anche su di un altro piano: perché scegliere di limitare le libertà con continui DPCM e non direttamente con decreti-legge, che la Costituzione prevede appunto per i casi straordinari di “necessità e urgenza”? 

Se è vero che sempre di atti del Governo si tratta, gli strumenti sono molto diversi. 

Il decreto-legge chiede il coinvolgimento dell’intero Governo, che lo adotta, nonché la emissione, come forma di controllo, del Presidente della Repubblica; e il necessario passaggio parlamentare della conversione in legge entro 60 giorni, a pena di nullità.

Il DPCM è invece espressione di un organo monocratico, il solo Presidente del Consiglio. 

Davvero la necessità e l’urgenza non consentivano, o le limitazioni a libertà costituzionali non meritavano, di affrontare il problema con forme più collegiali? 

Tra l’altro, per inciso, il D.L. è uno strumento pensato per affrontare l’urgenza, con prescrizioni immediate; in tal modo lo si è ridotto ad una sorta di “autorizzazione” a emettere futuri DPCM, paradossalmente ritardandone l’effetto.

Proporzionalità

Un secondo profilo interessante, potrebbe riguardare poi le prescrizioni concrete dei DPCM. Già abbiamo detto che, se poste al di fuori dei confini dei limiti stabiliti dai D.L., esse si potrebbero configurare come illegittime. Vorremmo però addentrarci oltre: rispetto agli stessi obiettivi posti dai decreti-legge, si tratta di prescrizioni razionali, proporzionali, adeguate?

Il principio di proporzionalità è uno dei principi fondamentali del diritto amministrativo e viene tradotto in due valutazioni: se l’atto è idoneo a ragionevolmente far conseguire il risultato e se è quello strettamente necessario a farlo, ossia se è il mezzo più mite disponibile, tra tutti quelli individuati come idonei. 

Qualche esempio: non è proporzionato escludere una ditta da una gara se nella domanda non ha indicato informazioni secondarie, che possono essere acquisite in un secondo momento1; oppure estendere eccessivamente un vincolo paesaggistico a tutela di un bene culturale, tale da coinvolgere indirettamente altri beni siti a notevole distanza e per nulla incidenti sul bene culturale stesso2; o ancora annullare un provvedimento favorevole a un privato, a distanza di tempo, adducendo una irregolarità forse anche esistente allora, ma non più significativa nell’oggi3; e così via. 

Al tempo stesso, la proporzionalità impone che lo strumento possa ragionevolmente far conseguire lo scopo: un atto inefficace, inefficiente non è neppure proporzionato. 

Insomma: l’azione amministrativa deve essere razionale, non blanda né sovraccarica. Puntuale nell’individuare i suoi obiettivi – che sempre traggono origine dalla legge -, precisa nell’approntare i mezzi, adeguata nel rapporto tra i primi e i secondi.

Quale scopo?

Scorrendo le varie prescrizioni dei DPCM, ma anche i provvedimenti degli Enti locali, viene da chiedersi se essi effettivamente abbiano sempre rispettato tale canone. 

Certo non sempre sono state chiare le stesse finalità di legge, sospese tra il contenimento del contagio, il contrasto al contagio, il tracciamento degli infetti4 ed evitare il collasso del Servizio Sanitario Nazionale (finalità tutte enunciate, per legge o per televisione, ma non esattamente coincidenti, a ben vedere). A fronte di tali obiettivi, il principio di proporzionalità degli atti esecutivi sempre è stato rispettato?

Scorrendo le varie prescrizioni, sia dei DPCM sia degli Enti locali a cui è stato conferito eguale potere, abbiamo appreso di limitazioni all’attività fisica tout court, di imposizioni del numero di accessi ai supermercati per famiglia, addirittura con obbligo di individuazione di un unico familiare legittimato, di limitazioni agli esercizi commerciali più restrittive di quelle imposte ad altro livello, fino alla espressa dichiarazione che determinati divieti non riguardassero per nulla il rischio di contagio, ma servissero unicamente a “dare l’idea ai cittadini di un regime duro”. 

Pare abbastanza evidente la sussistenza di problemi di proporzionalità, di adeguatezza nella scelta dello strumento meno invasivo; che forse talvolta hanno sconfinato nello “sviamento di potere”, ossia nell’utilizzo di un potere per finalità diverse da quelle per cui è stato attribuito. 

È facile ravvisare come tali ambiguità abbiano portato a stress pure l’ulteriore esercizio del potere amministrativo in sede di sanzione della trasgressione. Le forze di Pubblica Sicurezza si sono trovate ad applicare norme che intendevano molto più di quello che dicevano, con esiti talvolta paradossali.

Al tempo stesso, sull’altro versante della proporzionalità che è l’adeguatezza, troviamo nei DPCM molto spesso l’utilizzo della “raccomandazione”. Non si prescrive, ma si raccomanda, a volte anche “fortemente”: agli anziani e immunodepressi di non uscire (DPCM 4/3/20 art. 2), ai febbricitanti di stare in casa (DPCM 8/03/20, art. 1), agli imprenditori di concedere le ferie, di fare smart-working e di sanificare i locali (DPCM 11/03/20 art. 1), e così via. Un provvedimento amministrativo può essere utilizzato in funzione, per così dire, di moral suasion? E quale efficacia produce rispetto a chi non osserva la raccomandazione? È sindacabile in sede giurisdizionale, ossia può essere annullato da un Tribunale? E quale responsabilità determina, in capo all’Autorità che lo emette?

La riapertura

Le considerazioni esposte non mirano a mettere in discussione la gestione dell’urgenza e l’efficacia delle concrete decisioni assunte (siamo tutti convinti che a un lockdown si dovesse comunque pervenire, specie alla luce dei dati sanitari già di tre mesi fa); piuttosto hanno mira al futuro, alle fasi di riapertura nelle quali le scelte saranno, anche nel merito, meno “vincolate”, e dovranno tenere conto della variegata complessità dell’intero territorio italiano, così come della diversa diffusione del virus nelle varie zone e Regioni.

In tale contesto, un utilizzo eccessivamente disinvolto degli strumenti della discrezionalità amministrativa deve essere assolutamente evitato, per non cagionare storture anche gravi, nel rapporto tra “autorità” e “libertà”, tra governanti e cittadini, che caratterizza, nella sua essenza, il diritto amministrativo.

1 Consiglio di Stato n. 2183/2020

2 TAR Puglia Lecce n. 347/2020

3 Consiglio di Stato n. 1837/2020

4 Forse non tutti ricordano che originariamente il D.L. 6/2020 prevedeva all’art. 1 la possibilità di emettere i provvedimenti limitativi principalmente “nelle aree nelle quali vi sia almeno un contagiato per cui non si conosce la fonte di trasmissione o comunque non riconducibile ad aree già interessate dal contagio”, facendo quasi intendere che il problema principale fosse il tracciamento degli infetti

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